Perché il Ministro Calenda “dichiara guerra” ai dirigenti di Embraco

Se il ministro dello Sviluppo Produttivo ha deciso di europeizzare la vertenza Embraco, evidentemente lo ha fatto perché ritiene che questa impresa non stia rispettando le regole sulla concorrenza dell’Unione europea. Delle due l’una: o ha ragione lui, oppure le regole del gioco sono state scritte a uso e consumo delle multinazionali, alle quali si dà in mano un potere di ricatto destinato a svuotare la democrazia. È l’eterno conflitto regressivo tra la privatizzazione e il privilegio dei profitti, da un lato, i bassi salari e l’impoverimento del welfare (finanziato dalle tasse e dai contributi sociali), dall’altro. Calenda ha fatto bene a rivolgersi alla commissaria europea alla concorrenza Vestager (la stessa che ha appioppato alla Apple 13 miliardi di multa da restituire all’Irlanda) e gliene va dato merito, nella misura in cui il dumping fiscale, tra un Paese ed un altro, non è che il capovolgimento democratico del rapporto tra chi detta le condizioni e chi è tenuto a rispettarle.

Attirare investimenti attraverso il gioco sporco del vengo o me ne vado se mi date o non mi date questo e quest’altro, di cui alla delocalizzazione di Embraco dall’Italia alla Slovacchia, non è la medicina ma la malattia di una globalizzazione che tende a inverarsi come modello unico di sviluppo, estraneo alla cultura politica e sociale europea. Per tale però bisogna intendere quella originaria dei 12 Paesi che hanno dato luogo al trattato di Maastricht del 1992, per affermare una globalizzazione economica fondata su regole compatibili con i suoi valori di fondo. L’Europa non può più essere o diventare qualcosa di indistinto, che va da Gentiloni, Merkel e Macron, a Orban e Kaczynski (e perfino Erdogan che vorrebbe entrare a farne parte), cioè un’assemblaggio variabile di governi che permette di praticare politiche opposte ai suoi ideali e soprattutto ai suoi principi costitutivi. I 497 licenziamenti alla Embraco, funzionali alla delocalizzazione della produzione in Slovacchia, ci dicono (e non è la prima volta) che l’Europa rischia di imitare la parte peggiore del modello economico e sociale degli Stati Uniti d’America dove, ci ricorda Federico Rampini, “uno Stato può vietare di fatto l’ingresso dei sindacati in azienda, per attirare fabbriche da uno Stato all’altro” o “di tagliare i servizi pubblici ai cittadini al fine di diventare paradiso fiscale” per chi soldi ne ha tanti e li vuole incrementare a danno evidente della collettività. Un crimine sociale al quale purtroppo tanti danno appoggio, salvo poi lamentarsi del fatto che aumentano i poveri e le disuguaglianze, in parallelo a una crescita economica non orientata al benessere delle persone e delle famiglie. Bisogna dire grazie al Ministro Calenda, con la speranza che le imminenti elezioni non spengano i riflettori su questa vertenza che richiede risposte e misure adeguate in grado di fare scuola e chiarezza. Al Ministro, ai governi e alla politica in generale, però, occorre far presente che la concorrenza sleale e irresponsabile non si verifica solo tra Stato e Stato. Quella interna tra impresa e impresa, non è meno grave e diffusa, anzi. Pirateria contrattuale, appalti e subappalti che inquinano e disarticolano una filiera del lavoro altrimenti organizzabile e governabile mediante il principio “a parità di lavoro, parità di retribuzione e tutele”, generano una odiosa concorrenza sul lavoro umano che molti esperti (in realtà consulenti di parte) tentano in tutti i modi di giustificare, come quello di mettere in alternativa gli “investimenti esteri” e i diritti basilari dei lavoratori. Ma qualcuno pensa che il fondo americano Global Infrastructure Partners abbia acquistato i treni di Italo perché c’è il Jobs Act o perché si sono liberalizzati i contratti a tempo determinato con i risultati che sono sotto gli occhi tutti? O che la crescita in atto del Pil, sempre inferiore alla media europea, sia conseguenza diretta è prevalente di queste misure? Tutti chiedono tagli, sgravi ed esenzioni, anche per adempiere obblighi di legge incondizionati. Ma con quale denaro si costruisce la protezione sociale delle future generazioni? Sono poco responsabili quelli che se ne occupano, o quelli che navigano a vista ma non sanno verso quale porto dirigersi?

Giovanni Gazzo (Presidente Uiltucs Lombardia)